Sono state corredo di tombe la maggior parte dei reperti archeologici del periodo magno-greco e romano esposti nel museo della vicina Vibo Valentia.
Continuano ad abbellire tombe etrusche pitture e sculture.
Le modalità, le forme, che si osservavano nei confronti delle persone, dai loro parenti ed anche dagli estranei, all’atto del decesso, prima e dopo, differivano da un luogo all’altro.
In quasi tutte le chiese cristiane nel corso dei lavori di restauro vengono rinvenuti resti umani riuniti in fosse comuni o in sepolcri particolari, con lapidi marmoree dedicate a famiglie facoltose o a personaggi ritenuti illustri.
Si può rilevare ancora questa realtà attraverso le grate in ferro inserite sul pavimento di varie chiese vibonesi.
Anche nella nostra Sant’Onofrio, nelle fondamenta della Chiesa Matrice, è stata accertata la presenza di tombe.
Norma categorica di grande interesse, in fatto di sepoltura, anche per l’enorme scalpore suscitato in persone di cultura come il grande poeta Ugo Foscolo, fu il cosiddetto “Editto di Saint-Cloud”, emanato da Napoleone Bonaparte il 12 giugno 1804 ed esteso successivamente (il 5 settembre 1806) anche al regno italico, sul cui trono sedeva Giuseppe Bonaparte.
Con esso, per ragioni igieniche ed in ossequio al principio di uguaglianza, si faceva rigorosamente obbligo di seppellire i morti in cimiteri fuori città, e non più nelle chiese e nei conventi.
Inoltre, tutte le lapidi dovevano essere della stessa misura e grandezza e sulle iscrizioni apposte, a salvaguardia della verità e del decoro, vigilava un’apposita commissione.
Nonostante ciò, a Sant’Onofrio e nei paesi limitrofi, la vecchia usanza si protrasse ancora per parecchi decenni.
Secondo la tradizione, che voleva i fanciulli deceduti angeli, le campane suonarono a festa, rispettivamente il 3 agosto per Josepha Perrone di anni 9, figlia di Agostino e di Caterina De Fina; e l’11 agosto per Rosa Di Leo figlia di Domenico e di Teresa Caparrotta (fonte: Ester Maragò, “Analisi Storico Demografica sulla Parrocchia di Santa Maria delle Grazie”).
Grande importanza, per le implicazioni di carattere religioso, sociale e culturale che comportava, assumevano nella Sant’Onofrio di un tempo (le testimonianze raccolte si riferiscono agli anni Trenta) il rito funebre e il conseguente culto dei morti.
Forte era, nelle varie sfaccettature in cui essa si manifestava, la componente di dolore ed ineluttabilità dell’evento, che veniva vissuto in modo partecipato e coinvolgente dall’intera collettività.
D’altronde da sempre le guerre, i terremoti, le calamità naturali, i soprusi sociali, avevano reso nelle nostre terre “familiare” la morte, con la quale quindi ci si era abituati a convivere.
Le tradizioni di cui stiamo per dare notizie dettagliate, in parte permanevano ancora negli anni Settanta.
Esso dava già, a seconda della sua cadenza, delle precise indicazioni sul sesso e sullo status sociale del defunto (u mortu).
E così, ad esempio, se u mortoriu veniva preceduto da due colpi intervallati di campana tutti capivano che si trattava di una donna; se i colpi di campana erano tre, di un uomo; se erano cinque di un sacerdote (nu previti); se erano nove dal parroco del paese.
Il triste rito funebre iniziava con la composizione del cadavere, che veniva spogliato dei miseri panni della vita di ogni giorno e rivestito con gli abiti migliori.
Molte donne lasciavano detto, in punto di morte, di essere vestite con l’abito da sposa, che per tale motivo, in vita, custodivano gelosamente.
Nella bara venivano inoltre riposti una coroncina del Rosario (i Paternostri) e gli oggetti della quotidianità (pettine, coltello, pipa, rasoio) in modo che,
simbolicamente, niente mancasse al defunto anche nella vita ultraterrena.
Dentro casa veniva allestita, con i copriletto più belli di cui si disponeva, la camera ardente.
Intorno alla bara si disponevano familiari ed amici.
In prima fila le donne che, sciolti i capelli (scapiiati), davano il via alla veglia funebre, generalmente un giorno ed una notte, durante la quale si recitavano preghiere ed orazioni, spesso interrotte da urla e pianti.
Venivano inoltre ricordati, con interminabili cantilene a più voci, pregi, virtù ed aneddoti particolari della vita dell’estinto.
Molte volte le donne, non si sa se più per il dolore della perdita subita o per adeguarsi ad un rituale tramandato di generazione in generazione, si graffiavano il volto da cui copioso scendeva il sangue e si tiravano i capelli, con una tale violenza che rimanevano loro in mano a ciocche (mazzi mazzi) e poi li deponevano sulla bara.
Tutti i parenti vestivano di nero (portavano u luttu) durante il funerale ed anche in seguito, per un arco di tempo che variava secondo il grado di parentela e del sesso: gli uomini per alcuni anni, le donne addirittura per tutta la vita, poiché il periodo si protraeva così a lungo che, inevitabilmente, nel frattempo veniva a mancare qualche altro parente (sono ancora in vita a Sant’Onofrio che, ininterrottamente, sin dagli anni Trenta o Quaranta vestono tutt’oggi in nero in segno di lutto).
Gli uomini indossavano camicie e cravatte nere o, in alternativa, un bottone rivestito di panno nero spillato sul risvolto della giacca.
Tutto nelle donne era rigorosamente nero.
Perfino il poco oro che portavano (fede nuziale e orecchini) veniva ricoperto di panno nero.
Quando una persona moriva non veniva celebrata Messa.
Il defunto veniva accompagnato fino alle ultime case del paese da un corteo composto da familiari e conoscenti preceduto dai membri della confraternita e guidato dal parroco che, prima di tornare indietro, impartiva l’ultima benedizione.
Nel corteo incedevano anche, con passo lento, almeno due Vrascerari, generalmente donne di umili origini, che portavano sulla testa un recipiente di terracotta o lamiera in cui ardevano carbone e incenso.
In prossimità del ponte del rione Casalvecchio il corteo si commiatava dal defunto e faceva ritorno a casa, mentre la bara veniva trasportata su, fino al cimitero, lungo una ripida salita che, per la sua asperità, provocava non poche difficoltà.
Alcune volte, causa il maltempo che rendeva ancora più instabile il percorso, la bara scivolava maldestramente dalle mani di chi la trasportava ed in alcuni casi si scoperchiava, sbalzando fuori il corpo senza vita.
Questi incidenti venivano vissuti con grande disagio, e finanche paura, dalla collettività, poiché in essi venivano interpretati i segni premonitori di cattivi auspici.
Procedevano in modo barcollante, sostenendosi a vicenda, a trecce sciolte e senza alcun fazzoletto in testa.
Il loro agire era caratterizzato da un atteggiamento isterico ed intervallavano preghiere con pianti ed urla strazianti.
Un ruolo importante nel rito funebre veniva svolto dalle Confraternite.
A Sant’Onofrio, la Confraternita del SS.mo Rosario fu istituita nel 1742 dai Padri Basiliani.
Essa offriva ai suoi associati (fratelli e sorelle) la cassa funebre, tre Messe ed il loculo.
La cassa (tambutu) era unica e veniva utilizzata per i trasporto del defunto dalla sua abitazione fino al cimitero; qui la salma veniva traslata in una cassa molto modesta, formata da quattro tavole grezze inchiodate tra loro.
Il cimitero non veniva frequentato con la stessa assiduità di oggi.
A quei tempi anche l’andare a rendere visita ai defunti poteva sembrare una pratica oziosa.
La prima Messa in suffragio del defunto veniva celebrata dopo sette giorni dal decesso (u Setti); ne seguiva una dopo trenta giorni dal decesso (u Trenta) ed un’altra, la terza, dopo un anno (l’Annata).
Il loculo veniva dato in concessione per dieci anni, trascorsi i quali o si rinnovava la concessione, dietro pagamento di una somma prestabilita, oppure i poveri resti mortali venivano traslati nell’ossario comune.
Era inoltre sempre un fratello che si assumeva il compito di fare il giro delle campagne, munito di una campanella, per annunciare la dipartita di un membro della Confraternita.
Per diventare fratelli occorreva pagare sin dalla nascita la quota fissa annuale pari a 5 o 10 lire; chi ne faceva richiesta in età avanzata doveva pagare tutti gli anni arretrati.
Chi non aveva avuto la possibilità di associarsi veniva sotterrato nella nuda terra.
L’abitazione del defunto veniva contrassegnata da una banda nera apposta sulla porta e, se chi veniva a mancare era un genitore o un figlio, questa restava impressa per almeno due o tre anni.
Fino al “Trenta” i parenti più stretti non uscivano di casa.
In caso di morte del capofamiglia per un determinato periodo (da un mese ad un anno) non si accendeva il fuoco in casa e, di conseguenza, non si cucinava. Venivano quindi consumati pasti freddi o, in alternativa, cibi preparati dai parenti.
Generalmente non veniva detto il nome della famiglia beneficiaria, peraltro facilmente intuibile, ma veniva addotta la motivazione che quanto raccolto sarebbe servito per alleviare le pene di “na facci ammucciata”.
Il testamento, sempre redatto da un notaio, conteneva una descrizione dettagliata dei beni del defunto con l’esatta ripartizione tra gli eredi e veniva aperto non prima di sei mesi dopo il funerale.
Anche nello stato di vedovanza emergeva la condizione di subalternità della donna nei confronti dell’uomo.
E così, se era assolutamente normale risposarsi per l’uomo rimasto vedovo, per il quale addirittura parenti e amici si sentivano in obbligo di aiutarlo a cercare un’altra moglie, così non era per la donna rimasta vedova.
Questa non poteva assolutamente contrarre un altro matrimonio, ed in quei rari casi in cui qualcuna osava comunque farlo, essa veniva di fatto emarginata e sottoposta allo scherno della collettività.
(*TESTO ELABORATO DA RAFFAELE LOPREIATO, NELL’ANNO 2001, SULLA BASE DELLE TESTIMONIANZE E RICORDI DELLE SIGNORE ANNA D’URZO E NINA LOPREIATO E DELL’INS. ANNA ARCELLA).