Argentina: Josè Rodolfo Maragò |
Carissimi,
verso la fine del Giurassico e l’inizio del período Cretacico, la Patagonia era una festa. Una densa vegetazione tropicale forniva pasto facile a incontrollabili branchi di diverse specie di sauropodi, mentre questi davano il suo contributo alla catena alimentare, come presa degli ultimi dinosauri carnivori. Prevalevano le conifere e le araucarie. Non c’erano le zone polari e il era relativamente instabile.
Ma, tra 150 e 145 milioni di anni fa, Gondwana cominciò separarsi di Pangea ed a formarsi il continente americano. Movimenti tettonici assolutamente fuori del comune si son prodotti, con delle incredibili eruzioni e terremoti inimmaginabili per la mente umana. Era come se il cuore fiammeggiante della Terra volesse scapparle del petto. Torrenti di lava correvano per i boschi e le pianure e tempeste di cenere incandescente scendevano come un ciclone di oltre 300 chilometri all’ora, abbattendo gli alberi e ammazzando gli animali, senza tener conto di situazioni e misure di ciascuno di loro. Sassi accesi cadevano per migliaia, con ululati assordanti, dando fine ad ogni segnale di vita. Pini augusti pinos e conifere maestose vennero atterrati con le prime onde di forza, sepolti da vere montagne di ceneri calde.
Poi vennero come frecce ardenti tra il cielo e le nuvole, tracciando rughe di fuoco, assomigliando miriadi di stelle fugaci che attraversavano il firmamento, pietre più piccole che vomitavano i vulcani più recenti sorti dalle viscere del pianeta e cadevano sul tropico estinto di allora. E ci son rimasti per milioni di anni.
Quando la Patagonia non ricevette più i venti umidi del Oceano occidentale, fermati dalla nuova Cordigliera quasi definitivamente sorta circa 65 milioni di anni fa, è diventata un altopiano arido, scosceso, ogni tanto interrotto di avvallamenti e valli così lontani tra di loro. Animali e pianti che erano campati per ben 80 milioni di anni in quel terreno, riposano seppelliti nel Tartaro della Natura, coperti da migliaia di metri de cenere e sedimenti, formando giacimenti di petrolio e di gas. Ma altri tanti alberi, quegli rimasti nell’Averno, più vicini alla superficie, sono stati trasformati per gli stessi minerali che li coprivano. Pian piano, la sostanza vegetale che li faceva parte è stata sostituita da quelli minerali che entravano nelle loro cellule, senza cambiare la loro forma fisica. E così si è prodotto quel fenomeno che ormai viene chiamato pietrificazione.
I secoli di secoli son passati ed assieme a loro, gli impenitenti venti della Patagonia si sono occupati di erodere gli altopiani, portandosi addosso manti quasi interminabili di sedimenti, scoprendo e presentando alla vista di tutto il mondo veri boschi di alberi di pietra, palme, conifere e araucarie, tra gli altri, alcuni di loro ancora in “posizione di vita”, come stroncati all’improvviso dall’ascia gigante di un vikingo. Si vedono così nel presente tronconi di alberi di pietra in piedi, anche con le sue radici, di ogni colore, secondo i minerali che li hanno modificato. Un poco più avanti, le spoglie dello stesso albero, stroncato quasi nella base, spaccato in diversi pezzi, bruciato dalla parte esterna forse da un vortice di fuoco, ormai trasformato in una sorte di spossata colonna di marmo dei brillanti colori, dal nero della parte esterna al bianco nel centro.
La grande ampiezza climatica della steppa produce un fenomeno curioso: l’acqua delle scarse piogge annue entrano nelle crepe di questi monumenti di pietra durante il giorno, che si congela nelle notte di gelo, spaccando questi tronchi multimilionari in anni sulla Terra.
Quelle inimmaginabili eruzioni e terremoto che durante milioni di anni hanno distrutto quel paradiso tropicale che vi era nella Patagonia di allora e lo instancabile vento della steppa che ha scoperto i resti di quello che una volta è stata una festa della Natura, ci permettono visitare attualmente questo cosiddetto monumento naturale nazionale, oltre 2.080 chilometri al Sud di Buenos Aires, nella provincia di Santa Cruz, Argentina.
Un forte abbraccio dal profondo Sud del mondo, José R. Maragó